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domenica, Maggio 19, 2024
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Bianca Cappello: i suoi fiori e i suoi profumi a Villa LA TANA

Foto dal web

by Benedetta Giannoni

MAIA: la piccola che perse il padre con le mine tedesche e il nome per mettere al sicuro i nostri soldati.

 Villa “la Tana” come ogni giorno si stagliava con la sua facciata leggera e color dell’oro contro il bosco scuro del borgo di Ulivelli. Al suo interno la domenica mattina si svolgeva la messa e la bimba entrava da sola a passo svelto. Si dirigeva verso la cappella attraversando il grande salone balaustrato e alla fine della funzione la marchesa Giaquili Ferrini le donava un mazzo di fiori. La guerra era finita da poco e la cartiera sull’Arno era stata fatta esplodere dall’esercito tedesco in ritirata. Gli abitanti delle case vicine erano salvi solo grazie ad una sana disobbedienza di un soldato, che li avviso’ dell’imminente distruzione del macchinario e li fece allontanare. Nella loro fuga affannosa gli invasori disseminarono di mine Candeli ed il padre della piccola Maia morì saltando su una di queste: il dono floreale della marchesa era dunque un atto pietoso in ricordo del defunto. Il suo nome così insolito “Maia” veniva urlato a gran voce quando stavano per arrivare i soldati di Hitler ed era un segnale per far scappare tutti gli uomini che si dovevano nascondere per non farsi rastrellare: un avviso efficace senza dare troppo nell’occhio. I fiori dei mazzi erano ciò che offriva il giardino della villa a seconda della stagione, molto spesso erano rose e fra tutte le rose di quella dimora una è rimasta senza dubbio nella storia: una “rosa” Bianca.

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 Facciamo una corsa a ritroso nei secoli e parliamo di Bianca Cappello che nasce da una famiglia patrizia di Venezia nel 1548, perde presto la madre di nome Pellegrina Morosini cosicché il padre Bartolomeo si risposa con una donna ricca, non bella e dal carattere aspro. A quattordici anni si invaghisce di un dongiovanni fiorentino di nome Piero Buonaventuri che lavora in una filiale del banco dei Salviati nella Serenissima: lui le racconta di essere un gran signore e lei ingenua ci crede. Rimane incinta e a quel punto scappa di casa portando via dal palazzo paterno quanti più soldi e oggetti preziosi riesce a trovare. Sui due c’è un mandato di cattura ed una taglia della città di Venezia. L’ unico posto sicuro dove fuggire per i giovani sarà la patria di Piero: la città di Firenze. Bianca si ritroverà quindi nella dignitosa modestia della famiglia dell’ormai marito, lei che era abituata a ben altri fasti e con la brutta sensazione di essere stata fregata molto bene. Le diplomazie fiorentine e veneziane si scontreranno sulla loro vicenda e data l’importanza della famiglia di Bianca entrerà in campo direttamente il granduca. In questo contesto di ambasciate la giovane e il figlio di Cosimo I de’ Medici,  Francesco I si incontreranno e Cupido farà scoccare la freccia che li condurrà ad una passione bruciante.
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La loro vicenda non si può tradurre in due parole data la complessita’. Erano sposati entrambi: Francesco per convenienza politica con Giovanna d’Austria e Bianca per una sciocchezza di gioventù con il Buonaventuri. Vedranno poi i loro consorti morire, la prima in un insolito incidente domestico e il secondo con un colpo di spada in un agguato notturno dietro via Maggio a Firenze. Svincolati dai legami coniugali da questi due eventi luttuosi finalmente si sposeranno e Bianca diverrà granduchessa per un periodo di amore senza più limitazioni con il suo consorte.
Prima di questa libertà di amarsi i due si erano frequentati in ogni modo, con la tolleranza di Piero Buonaventuri che aveva anche lui le sue amanti e convenienze economiche e con il disappunto di Giovanna D’Austria che subì tutto con sofferenza.
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Villa “La Tana” a Candeli fu un dono di Francesco per dare inizialmente una dimora a Bianca e conseguentemente a suo marito. Stessa cosa fu il palazzo di via Maggio a Firenze detto proprio di “Bianca Cappello” dove nella magnifica facciata ad intonaco graffito che si sviluppa con decorazioni in forma di simboli alchemici e grottesche si voleva evidenziare come nella concezione dei due amanti l’unione fra il femminile ed il maschile conducesse alla perfezione. Qui una curiosità: un tunnel univa il palazzo di Bianca con palazzo Pitti per consentire a Francesco di incontrarla indisturbato nelle sue stanze. Questo cunicolo durante la guerra fu usato per celare ai nazisti le opere d’arte degli Uffizi le quali vennero murate all’interno di esso. Eppoi la villa di Pratolino dove nel giardino altri elementi misteriosi, oggi scomparsi, nelle sistemazioni ed allestimenti di statue e fontane, riportavano alle loro alchimie ed al loro mondo. La villa di Lappeggi era stata fatta per lei ed in Palazzo Vecchio troviamo le “stanze di Bianca”. Insomma, non c’era luogo o angolo, palazzo o villa, passaggio angusto o largo, che Francesco non pensasse di costruire per Bianca. I pittori Santi di Tito e Alessandro Allori la ritrassero nei suoi splendidi abiti.
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Tutta questa passione amorosa verso questa donna unitamente all’interesse di Francesco per gli esperimenti alchemici ed al conseguente tiepido interesse per il governo dello stato destarono molti malumori nel popolo ed in suo fratello minore Ferdinando che era cardinale. Dopo molte tensioni nel 1587 la coppia in un soggiorno alla villa di Poggio a Caiano muore in circostanze misteriose, forse avvelenati, forse ammalati di “febbre terzana”.

 I corpi di Francesco e Bianca dopo l’autopsia vennero portati uno verso un funerale fastoso, l’altra forse in San Lorenzo nelle tombe Medicee senza troppi convenevoli. Venne incaricato dello “smaltimento” della salma di Bianca il Buontalenti e non abbiamo la certezza di dove sia adesso. Ferdinando si tolse l’abito religioso, si sposò con Cristina di Lorena e governò la Toscana con equilibrio. Una fine tragica di un amore molto discusso.
Nel loro periodo d’oro, dopo il matrimonio nel 1579 la coppia diede molte feste mondane e di delizie. In questo ambiente di balli e musiche, molti non sanno che un notissimo insegnante di danza le dedicò un prezioso trattato intitolato “Il Ballarino”. Correva l’anno 1581 ed il “maestro di ballare” era Fabritio Caroso da Sermoneta. In questo libro si mescolano gli “avvertimenti” e le “regole” per il ballo e per le buone creanze di società. Vengono spiegati i passi di molti brani. Ogni ballo è dedicato ad una dama e si apre con un sonetto composto per lei, segue la coreografia e ” l’intavolatura di liuto” che serviva per eseguire la parte musicale e che noi oggi chiameremo “spartito”. Insomma: un manuale completo per la perfetta riuscita di una festa. I “Balletti” erano danze veloci con contaminazioni popolari così come le “cascarde” che facevano letteralmente “cascare” il danzatore, i “canari” con passi battuti a terra come una specie di flamenco, eppoi “balli”, “basse” e “pavane” che erano più lenti e solenni e “gagliarde” dove il ballerino, specie di sesso maschile dava il meglio di sé in abilità e virtuosismo. A Bianca oltre all’intero testo vengono dedicati moltissimi sonetti ed in particolare il balletto “Alba Novella” e la cascarda ” Alta Regina”.
Sappiamo che Bianca seguiva Francesco nei suoi esperimenti scientifici di alchimia e le notizie di cronaca riportano anche che fosse una seguace della cabbala ebraica. Sembra che si facesse inviare dai suoi parenti veneziani molti libri di questa materia che essi reperivano dalla nutrita comunità di ebrei della Serenissima.
La storia di questa discussa signora e della nostra Villa La Tana ci riportano poi ai giorni odierni, ai profumi ed alla brezza che scende dal bosco di Ulivelli. La fragranza della selva si fonde con quella dei fiori domestici e degli agrumi della limonaia nel giardino. Per caso o per destino l’attuale proprietaria della villa, la signora Simone Cosac crea e produce profumi e con l’aiuto del suo “naso” anch’esso femminile, Sonia Constant, ha creato un’essenza dedicata alla dama che ha chiamato “Perle di Bianca”, proprio su suggerimento della Cappello stessa apparsale in sogno.
Di Bianca ci rimane oggi il mistero: Angelo o strega con i libri di cabala sul leggio? Dama o villana? Opportunista o pazza d’amore? Riassumere la sua storia come ho già detto è davvero difficile e complesso perché era odiata dalla famiglia Medici e dal popolo che vedeva il suo sovrano così intento a perder tempo dietro a lei. A questo punto  c’è da aggiungere che purtroppo a volte il comando di uno stato non è una vocazione per nascita e magari si sarebbe preferito fare altro. Potendo scegliere, infatti, Francesco I ha scelto lei fino alla morte.
Una ultima curiosità: la signora Maria Serenella Cappello, moglie del presidente Mario Draghi, l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri è discendente diretta di Bianca e della sua famiglia.
Come vediamo le figure femminili si susseguono abbondanti nella lunga vita di questa elegantissima villa appoggiata sul fianco di una collina baciata dal sole.
Ringrazio il Comitato della Giostra della Stella di Bagno a Ripoli per aver concesso le foto degli abiti di Bianca Cappello ricostruiti.
(N.d.r. Maia è la madre dell’autrice dell’articolo)

Chi è BENEDETTA GIANNONI??

Benedetta Giannoni, nata a Firenze nel 1973, vive a Bagno a Ripoli da sempre, diplomata al liceo artistico, impiegata in un negozio che vende articoli sportivi. Da quasi 30 anni studia e balla danze antiche nel corpo di danza “Balletto Rinascimentale” della Contrada Alfiere, dipinge ed espone nella associazione Giuseppe Mazzon. Le piace il running e camminare. Adora gatti e cavalli.

Benedetta Giannoni, autrice dell’articolo
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Il GIARDINO DEI PONTI a Bagno a Ripoli

Giochi

By Andrea Bettarini

Quel giorno ci capitai per caso; aspettavo l’apertura del negozio di scarpe ed ero in netto anticipo. Decisi di fare due passi. Attraversai la trafficata via Roma e mi trovai nel bel mezzo di un giardino. Un’oasi mi si spalancò davanti. Da quel giorno non posso fare a meno, ogni tanto, di tornare e godere di quell’angolo tranquillo; il Giardino dei Ponti da poco dedicato a una gloria locale, Silvano “ Nano “ Campeggi. E’ un’area polivalente, si presenta con un accogliente ampio parcheggio, il mercoledì mattina le macchine cedono il posto ai banchi del mercato. Ai capi del parcheggio gli ingressi, uno con una bella aiuola di rose e una fontana in cotto. L’opera Equinozio di primavera è dello scultore Nello Bini.

Fontana

Due filari di alberi, uno di lecci e l’altro di aceri campestri fiancheggiano il parcheggio fino all’estremità dove sorge il monumento ai perseguitati, ai deportati e ai caduti per la democrazia e la libertà. La porta della memoria, colonne in cotto e lastra d’ottone creata dall’architetto Sook Choi Cipani.

Porta

Una siepe di lauro separa lo spazio dedicato ai giochi per i bambini: i più piccoli approfittano di altalene, dondoli e scivoli sotto lo sguardo vigile delle mamme.

Giochi

Vialetti, ordinati percorrono l’intero parco, una conca naturale che avvolge il visitatore tra pini, cipressi, e acacie. Alla sommità un fitto selvatico ne delimita il confine.

Ciotola

Un’estensione di un bel prato di erbe spontanee con malva, trifoglio e rigogliose piante di tarassaco degrada verso il basso accogliendo una istallazione poetica dal titolo Sotto gli alberi di Niccolò Andrea Lisetti. Tra piante di magnolie e ciuffi di lavanda sei ciotole di cotto ognuna con un componimento dedicato alla Natura.

Su delle panchine, lungo il percorso, si può sostare e ammirare la bellezza di questo parco. In lontananza le dolci colline di Fiesole, il chiasso dei bambini che giocano e il traffico della via principale sono attutiti dalle siepi di alloro che costituiscono delle naturali barriere fonoassorbenti. Solo il ripetersi ostinato del verso delle tortole, a momenti ipnotico, fa un effetto rilassante. Un gruppo di anziani, giocano a carte sui i tavoli sotto gli alberi, qualcuno preferisce le parole crociate.

Nel basso della conca naturale un tracciato segnato da siepi, è il percorso dove, durante la Giostra della Stella si affrontano cavalli e cavalieri nel Palio delle Contrade. Manifestazione che si svolge la seconda domenica di settembre, le quattro contrade si contendono il Palio.

Panoramica

Le contrade si sfidano, in prove di forza e di abilità quali il tiro della fune, la corsa con un cucchiaio tra i denti e sopra un uovo cercando di arrivare al traguardo senza romperlo, la corsa nei sacchi. La sera il gran finale con la Giostra della Stella. I cavalieri lanciati a gran carriera devono con una spada centrare una stella sorretta da un leone rampante. Gremiscono il centro della pista i contradaioli, il pubblico assiste dalle gradinate montate per l’occasione. Il Palio, ambito trofeo, è finanziato dalla Società di Mutuo Soccorso di Bagno a Ripoli. Il disegno è opera di artisti locali. Essere scelti per realizzare il Palio è un grande onore basti pensare che nelle passate edizioni hanno prestato il loro talento maestri quali Silvano “ Nano “ Campeggi e Osvaldo Curandai.

Il Giardino dei Ponti un connubio tra natura, arte e storia.

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ANDREA BETTARINI

Nato a Firenze il 7 agosto 1947
Dipendente tecnico scientifico dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri.
Da quando è in pensione si è dedicato alla scrittura.
Ha scritto articoli di storia delle scienze pubblicati su riviste di divulgazione e documentazione storiografica.
Alterna le ricerche d’archivio e bibliografiche con la scrittura di racconti.

VILLA LA TANA a Candeli nel comune di Bagno a Ripoli

Vista frontale di Villa la Tana (foto dal web)

by Sheila Tagliaferro

I Medici e le loro mogli furono degli ottimi amministratori dell’ingente patrimonio familiare che si tramandava nelle generazioni, quello immobiliare in modo particolare. A testimonianza di questo, oltre ai meravigliosi palazzi di Firenze, abbiamo le numerose ville che impreziosiscono i territori fuori dalla città, che i signori di Firenze acquistarono, costruirono, ampliarono; arricchendole con stupendi giardini, parchi, fontane, per non parlare di mobili pregiati, affreschi, stucchi, quadri, statue e un’infinità di oggetti preziosi.

Nel nostro viaggio tra le dimore medicee del territorio di Bagno a Ripoli non può mancare la tappa di villa “La tana”, che in realtà dei Medici non è mai stata, non rientra infatti nell’elenco delle 14 ville Unesco, dove invece troviamo sia Lappeggi che Lilliano. Il fatto è che seppur mai di proprietà della potente famiglia, la sua vicenda si è comunque intrecciata con essa, vedremo tra poco in che modo.

Situata in posizione elevata sul versante che si affaccia sulla valle dell’Arno della collina di Candeli, l’edificio domina la valle, regalando una bellissima visuale della sua forma elegante e aggraziata, a chi arriva da Firenze, percorrendo la via di Rosano, ma anche dall’altra sponda del fiume si gode della sua vista, incorniciata dal verde paesaggio delle pendici di Villamagna, in cui è incastonata.

Veduta di Villa la Tana (foto dal web)

L’esistenza dell’edificio ha origine già nel Quattrocento, quando è documentata la presenza di una casa turrita, di proprietà dei Buccelli di Montepulciano prima, e dei Landi di Castellina in Chianti poi.
E’ nel 1570 che la villa però entra nella storia, perchè viene acquistata da Piero di Ser Zanobi Bonaventuri e sua moglie Bianca Cappello. Sì, proprio lei, la bella veneziana che rapirà il cuore del granduca Francesco I de’Medici per diventarne prima amante e poi discussa sposa; anzi parrebbe che proprio all’epoca dell’arrivo in questa casa il granduca e la nobile dama veneziana fossero già in dolci rapporti, il che spiega come il semplice impiegato di banca Bonaventuri avesse potuto permettersi un tale acquisto…
(Ma lasciamo il gossip alla prossima volta, quando vi parleremo nel dettaglio della bella Bianca!)

Antica veduta di Villa la Tana (foto dal web)

Fu probabilmente in questo periodo che lo spartano edificio a due piani con un salone al centro, subì un primo intervento di ampliamento, anche se dopo breve tempo la futura duchessa, cedette la struttura all’Ospedale di Santa Maria Nuova.
Nel 1631 la costruzione divenne proprietà dei Ricasoli, e fu poi proprio il Barone Leon Francesco Pasquale Ricasoli, che ne promosse la vera ed effettiva totale ristrutturazione, eseguita sotto la direzione di Giulio Foggini.

Ecco che ne ‘700 la semplice casa divenne a tutti gli effetti una vera e propria villa, impreziosita da molti pregiati dettagli, primo su tutti la bellissima e scenografica scalinata ricurva, divisa in due rampe, con al centro una piccola grotta ninfeo, dedicata a Nettuno, con una vasca riccamente decorata con tasselli in pasta di vetro e conchiglie; la scalinata è inoltre impreziosita da bellissime statue di cotto a grandezza naturale.

Tra gli abitanti di Candeli si tramanda ancora il racconto che quelle conchiglie e quei ciottoli che compongono la pavimentazione, sono stati raccolti lungo la riva dell’Arno e donati dai bambini della zona, in un clima che io mi immagino di partecipazione totale, se non pratica, di sicuro emotiva, agli importanti lavori settecenteschi, da parte di tutta la gente del posto, che non era altro che la popolazione del contado, che viveva e lavorava nella tenuta agricola che comprendeva tutti i territori limitrofi alla villa.

La bellissima facciata dalla forma leggera e delicata, è addolcita da volute decorative e da un grande orologio al centro, sotto il quale svetta imponente lo stemma della famiglia Ricasoli Firidolfi, diviso in quattro parti che rappresentano ciascuna una casata della famiglia.
I giardini sul retro, sono decorati da bellissime aiuole geometriche, secondo quella tradizione che verrà definita “giardino all’italiana”, composto da siepi di bosso, gelsomini, rose, lavanda, lecci, magnolie, senza dimenticare le piante di agrumi e la limonaia; insomma, un tripudio di fragranze che hanno ispirato l’attuale proprietaria, Simone

Cosac, a creare una linea di essenze che è divenuto un brand di fragranze artistiche la cui prima creazione è stata proprio il profumo dedicato a Bianca Cappello.

Da ricordare infine sono i preziosi interni, primo su tutti il bellissimo salone decorato dagli affreschi di Antonio Cioci, eseguiti nel 1772, raffiguranti località marine incorniciate da elaborati stucchi, ma da sottolineare sono anche i bellissimi pavimenti in seminato alla veneziana, e i solai in legno decorato.
Tutto l’edificio ha subito un lungo intervento di restauro filologico, che ha riguardato sia le parti strutturali che gli elementi decorativi, come portali, scale, busti in gesso e cotto, fino agli spazi esterni.
Purtroppo è una residenza privata e non è quindi visitabile, ma si può costeggiare e ammirare nel corso di una bella passeggiata lungo la collina che da Candeli sale a Villamagna.

Veduta laterale di Villa la Tana (foto dal web)
Interno di Villa la Tana (foto dal web)
Veduta laterale di Villa la Tana (foto dal web)
Parte dei giardini di Villa la Tana (foto dal web)
Veduta da Villa la Tana (foto dal web)

Chi è Sheila Tagliaferro?

Sheila Tagliaferro è veneta, si è trasferita a Firenze per studiare all’Accademia di Belle Arti dove si è diplomata in pittura.
Da diversi anni  vive a Bagno a Ripoli dove è attiva nel gruppo di danze storiche “Balletto rinascimentale” della contrada Alfiere, all’interno del quale si occupa di rievocazione e studio dell’epoca medievale e rinascimentale.
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I CONVEGNI MISTERIOSI alla Fonte del Mascherone al BORRATELLO del CASALINO

Quel che resta del Mascherone

By Massimo Casprini

UN LUOGO MAGICO

Percorrendo la via di Montisoni, ad un certo punto, prima di iniziare la ripida salita verso il Monastero, troviamo il borro del Mascherone – conosciuto in questo tratto anche come il borratello di Casalino – che attraversiamo su un ponticello che, già nell’Ottocento era lungo tredici braccia (sette metri e mezzo), con una luce di due (poco più di un metro) e coperto a volta di mattoni.

Da qui, sulla sinistra, si scende per un sentiero nel folto del bosco – la Ragnaia di Casalino – finché ci appare, nascosta dalla boscaglia, la Fonte del Mascherone, una sorgente di acqua buona e abbondante, immersa in uno scenario altamente suggestivo. 

Una nicchia di natura incontaminata con praticelli di primule, pervinche, ellebori, mammole, ciclamini e prominenze di terra e di massi perennemente coperti di muschio, capelvenere e felci. Il tutto protetto da secolari castagni.

Molto probabilmente, la Ragnaia fu voluta dai De’ Nobili (proprietari dal 1405 al 1808) quando, per necessità o per diletto, nel Cinquecento si cominciarono a fare questi luoghi particolari per l’uccellagione. 

La ragnaia e il paretaio erano dei boschetti con alberi d’alto fusto piantati molto fitti vicino ai corsi d’acqua dove erano soliti abbeverarsi gli uccelli. Fra gli alberi venivano stese delle reti sottili con i fili intrisi di pania (sostanza collosa estratta dalle bacche del vischio) e tinti di verde scuro con il mallo delle noci per farli sembrare fili d’erba. Quella tesa che si creava era una ragnatela, detta il diavolaccio.

Alla zampa di un uccello – chiamato zimbello – si legava una lunga cordicella che, tirandola stando nascosti, lo faceva svolazzare davanti al diavolaccio per richiamare gli altri uccelli che rimanevano impaniati nelle reti. Si abbattevano con la ramata, una paletta intessuta di vimini con un manico lungo due metri. 

Potevano essere tordi, beccafichi, passerotti o pettirossi ma, difficilmente, si catturava il sassello perché era il più astuto di tutti che, ad ogni minimo rumore, scappava e non si faceva ingannare dallo zimbello. Tuttavia, si riusciva a prenderlo la notte quando si cacciava con il frugnuolo, una lanterna che, posizionata nel mezzo del diavolaccio, proiettava un fascio di luce che attraeva gli uccelli i quali, abbagliati, restavano nella rete e allora il cacciatore gridava: “Dagli con la ramata, che questo è un sassello, che aspetta poco!”.

I bambini di Casalino sulla cupola della cisterna (foto E. Figna, 1942 ca.)

Il nome Mascherone – dettato dalla sapienza antica degli uomini di campagna che chiamavano le cose con i nomi di quello che effettivamente rappresentavano – deriva da un antico mascherone rozzamente scolpito nel macigno dal quale sgorga l’acqua che cade in una grande pila rotonda incavata nella roccia.

Sopra, è incisa nel muro la data 1909 D che, probabilmente si riferisce all’anno in cui furono fatti alcuni lavori di manutenzione; la lettera D sta per Domini, ossia Anno del Signore. 

Tuttavia, la fonte vanta una storia molto più antica. È ricordata nel 1480 da Vespasiano da Bisticci – il celebre “cartolajo” – quando, di ritorno da un’escursione a cavallo con i suoi amici nei boschi di Fonte Santa, si fermò a bere a quella «degnissima fonte con tavole di pietra», preferendo l’acqua di sorgente al «vino solenissimo, che tuta questa montagnia n’era fertilissima» che il contadino del vicino podere Le Vigne gli aveva offerto. 

Nella seconda metà del Seicento il luogo era ben conosciuto tanto che il conte Lorenzo Magalotti dalla villa di Lonchio scrisse una lettera al marchese Giovan Battista Strozzi invitandolo a visitare il posto:

«E giù da questi monti scende incognita per un dirupo tra le ceppate de’ castagni, un’acqua che non la vedete se non quando è lì, e dopo aver lavato da dritto e da rovescio un masso di pietra viva, che ella si è lavorata a suo modo, e rivestitolo in qua e in là di musco e di lunghissimi capelveneri, si rimette incognita per un borro, dove si precipita di nuovo tra i castagni, lasciando l’aria di tutto quel contorno, che infino a mezzogiorno non sa che cosa sia Sole, così inzuppata d’umido, che vi sentite proprio abbrividire, e assai più del senso presente v’agghiaccia il pensare che cosa debb’essere questo luogo negli stridori d’una giornata coperta del mese di Gennajo».

La seduta di pietra con la data 1776 incisa nella spalliera

Un’altra testimonianza è una grande e chiara incisione con l’anno 1776 su un grosso masso che fa da spalliera a una seduta in pietra a fianco della fonte. Ci piace pensare che fu scolpita quando il Provveditore alle Strade nominato dalla Comunità fiorentina si fermò a bere con i suoi operai e disegnatori nel corso dei sopralluoghi di verifica che stavano facendo sulle strade comunitative rappresentate nel Campione del 1774.

Nell’autunno del 1919 il grande letterato Isidoro Del Lungo, mentre si trovava nella sua villa Le Palazzine presso San Donato in Collina, volle fare un’escursione sui luoghi descritti dal Magalotti. Si recò anche alla fonte del Mascherone, denominata «la Fontana del Lete, in quella profondità e in quella disperata solitudine, quasi che chi vi si conduce abbia per necessità a dimenticarsi di tutto il resto del mondo». Nel senso che  il posto fatato e l’acqua che avresti bevuto ti avrebbero incantato a tal punto da farti dimenticare tutto, trascinandoti in un mondo di sogni.

Di quel luogo, il Del Lungo ci ha lasciato una bella fotografia nella quale si vede il mascherone di pietra con ancora i tratti ben scolpiti degli occhi, del naso e della bocca da cui esce l’acqua.

La Fonte del Mascherone com’era nel 1919 (foto da Isidoro Del Lungo)

Sul lato destro della fonte c’è una grande cisterna con copertura a cupola in mattoni e il cilindro intonacato con graffiti a forchetta. Fra i vari ghirigori, sparse qua e là, si leggono varie lettere, mentre in un riquadro è chiaramente incisa la data 1850 sovrastata da una R e da una P, presumibilmente le iniziali del muratore o del proprietario che parteciparono alla costruzione.

Il 14 agosto 1942 l’ingegnere Eleonora Figna, figlia del proprietario Pio, progettò e realizzò un acquedotto per portare l’acqua potabile dal Mascherone a sette famiglie coloniche, tra le quali quelle della fattoria di Casalino, in quanto – scrisse nella sua relazione – «i coloni attingono l’acqua per il bestiame da fossi e pozzanghere e per l’uso umano debbono fare lunghi percorsi, quindi si può raccogliere l’acqua di alcune ottime sorgenti che affiorano nel terreno della fattoria e che nascono tutte dalla roccia, di acqua ottima, freschissima e perenne» (le famiglie coloniche erano: Gallori, Pasco, Curradi, Migliorini, Ferrini, Dreoni O., Dreoni S.). 

Si ricorda che durante l’ultima guerra, nelle estati del 1943 e del 1944, i numerosi sfollati che si erano insediati nella vicina villa Il Casalino scendevano al Mascherone per fare un bagno rigenerante nella vasca in pietra sotto la sorgente.

Tutto il complesso necessiterebbe di una periodica e costante manutenzione per evitare che la Natura prenda il sopravvento sulla storia dell’uomo.

La Fonte del Mascherone in evidente stato d’abbandono

Forse, proprio per la suggestiva posizione nel folto del bosco, era diffusa la credenza che in quel luogo “ci si sentisse”, come dire che fantastici spiriti e anime dell’oltretomba si riunissero a parlare intorno alla fonte per convegni misteriosi.

Sembra che questi spiriti, specialmente nella stagione invernale, si trasferissero nella villa Il Casalino dove il figlio del colono nel podere Le Vigne asserisce di aver visto, fino a pochi anni fa, in molte notti di tormenta un “lumicino” acceso a una finestra e delle ombre in movimento. Le mattine dopo, tutti i lenzuoli bianchi che coprivano divani e poltrone venivano trovati sparsi per terra… pur essendo tutta la villa disabitata!

Comunque, storia e leggenda si mescolano e non ci impediscono di andare alla Fonte del Mascherone non per dimenticare ma per bere acqua pura e fresca.

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ORATORIO di SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA a Ponte a Ema

Maestro da Barberino Martirio di Santa Caterina

by Andrea Misuri

Se a Ponte a Ema prendiamo via del Carota, merita assolutamente una fermata l’Oratorio di Santa Caterina d’Alessandria, un gioiello artistico di straordinaria bellezza, tornato all’antico splendore con il recente restauro. 

 

 

Maestro da Barberino L’imperatore ordina a Santa Caterina di abiurare
Maestro da Barberino Flagellazione di Santa Caterina

Costruito nella seconda metà del XIV secolo dalla famiglia Alberti, deve la sua fama al ciclo di affreschi. A quelli del Maestro di Barberino e di Pietro Nelli seguirono trent’anni dopo gli affreschi di Spinello Aretino, che completò le decorazioni interrotte per proseguire sulla parte superiore dell’arcone. 

Pietro Nelli Santa Caterina
Maestro da Barberino L’imperatore ordina a Santa Caterina di abiurare

 

 

 

 

 

 

La giovane Caterina, troppo emancipata e di grande cultura e bellezza, volle persuadere l’imperatore Massenzio a diventare cristiano. L’imperatore convocò i sapienti per convincerla ad abiurare la propria fede, ma furono loro a convertirsi. Sottoposta al supplizio della ruota dentata, fu salvata dall’intervento di un angelo. Fu allora decapitata e il fiotto di sangue si trasformò in latte. Oggetto di una devozione popolare profonda e largamente diffusa, è patrona dei giudici, dei notai e di chi lavora con i ferri taglienti, barbieri e sarti. Di derivazione francese la parola “caterinette”, con la quale in Piemonte si chiamano le giovani sartine, a Ravenna i biscotti a forma di bambola regalati alle bambine per la Festa della Santa sono le “Caterine”. Potremmo continuare a lungo, non c’è Regione d’Italia dove la Santa non sia patrona di Comuni grandi e piccoli, di Fiere e mercati, di Facoltà universitarie.

Spinello Aretino Cielo con i quattro Evangelisti

Quando visitammo l’Oratorio, la nostra guida, la sig.ra Roberta Tucci, ci raccontò come fin da piccola in casa  aveva sentito cantare la filastrocca della Santa Caterina. Nell’occasione consegnò a ciascuno di noi una copia del testo che mi fa piacere condividere con quanti non lo conoscono:

La santa Caterina biribin biribin ribin bon bon                                                       

era figlia di un re                 (3 volte)

Suo padre era pagano biribin ……….

sua madre invece no          (3 volte)

Un giorno suo padre biribin ……….

in preghiera la trovò           (3 volte)

Che fai tu Caterina biribin ……….

In quella posa lì                   (3 volte)   

Io prego Iddio mio padre biribin ……….

che non conosci tu             (3 volte)

Alzati o Caterina biribin ……….

sennò ti ucciderò                (3 volte)

Uccidimi mio padre biribin ……….

ma io non mi alzerò            (3 volte)

Allor padre arrabbiato biribin ……….

di spada la passò                  (3 volte)

E gli angeli del cielo biribin ……….

se la portaron su                  (3 volte)

Ma i diavoli dell’inferno biribin ……….

la riportaron giù                    (3 volte)

Una canzoncina che si ritrova dappertutto con il testo sostanzialmente omogeneo, salvo leggere variazioni o l’aggiunta di nuove strofe. Avrete notato come il racconto differisce dall’agiografia, con il padre, e non l’imperatore, responsabile della morte di Caterina. Nella loro ricerca della canzone popolare, la filastrocca ha attirato anche l’attenzione del gruppo musicale dei Gufi. Potete trovarla su youtube: La Santa Caterina – I Gufi a colori.

La coincidenza vuole che Santa Caterina D’Alessandria si festeggi il 25 novembre, una data che con riferimenti storici più recenti viene oggi considerata la Giornata contro la violenza sulle donne. Sarebbe davvero interessante dare un senso a questa coincidente ricorrenza storica visto che i contenuti forti che caratterizzano le vicende umane della Santa derivano dall’essere donna colta, combattiva e martirizzata dalla violenza del potere maschile.

Pietro Nelli Disputa di Santa Caterina con i sapienti (particolare)

Il parallelo culturale nasce spontaneo. Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea Generale della Nazioni Unite dichiara il 25 novembre Giornata internazionale contro la violenza sulle donne rifacendosi al brutale assassinio delle sorelle domenicane Minerva, Patria e Maria Teresa Mirabel, chiamate “las mariposas”, le farfalle, avvenuto il 25 novembre 1960. Belle, colte e ferventi cristiane, furono uccise perché ritenute donne scomode. Quel giorno si stavano recando in carcere per incontrare i rispettivi mariti. Bloccate in strada da agenti, furono torturate, violentate e poi strangolate. I loro corpi rimessi in auto e gettati in un precipizio per simulare un incidente stradale. Un bel libro ne racconta la storia: Julia Alvarez, Il tempo delle farfalle, Giunti, 2019.

 Ancora oggi nella storia del’America Meridionale, questo assassinio è considerato uno degli episodi più assurdi e violenti mai compiuti. Per questo le tre coraggiose sorelle continuano ad essere un’icona di libertà e opposizione alla violenza. 

Cosi come per i ripolesi potrebbe essere l’opportunità della riscoperta delle gesta eroiche della nostra Santa Caterina.

Riproduzione di un’opera del Granacci in occasione della Mostra Copie d’artista del 2015

 

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La Pieve dell’ANTELLA e i suoi misteri

La teca con il misterioso martire Lutius

By Massimo Casprini

UNO SCRIGNO PIENO DI TESORI

Il documeto più antico che si conosca in cui è rammentata la pieve romanica di Santa Maria all’Antella è del 1040. È, tuttavia, molto credibile che sia sorta, come molte altre chiese cristiane, su un preesistente luogo di culto di epoca romana e fors’anche degli etruschi la cui presenza nella zona è testimoniata da vari reperti.

Fu un antico patronato dei Siminetti, dei Guicciardini e dei Bardi. In seguito, fu rivendicato dalla potente famiglia Dell’Antella che ottenne i diritti nella seconda metà del Trecento e che li mantenne fino all’estinzione della famiglia nel 1698 alla quale subentrò l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano.

Una prima ricostruzione della chiesa c’era stata nel Duecento, alla quale seguirono i restauri nel 1775 che fecero un grande scempio con l’inserimento di elementi in stile barocco pieno di cornici e decorazioni a stucco che resero la chiesa “goffa e pesante”. 

Fortunatamente, gli ultimi e notevoli rifacimenti del 1922-1923 hanno ridato il primitivo stile romanico con le pareti rivestite di filaretti d’alberese estratta nella vicina cava di Belmonte, una bella pietra pulita e chiara che dona lucentezza alle pareti esterne e luce all’interno liberato dagli orpelli barocchi.

La Pieve dell’Antella com’era nel 1937

Sul lato destro della chiesa è il grandioso palazzo della canonica che aveva sull’angolo un grande stemma in pietra dei Dell’Antella (distrutto nel 1977). Sul lato sinistro c’era la cappella dell’antichissima Compagnia delle Candele alla cui affrescatura e dotazione dell’opera Assunzione della Vergine del Dandini contribuì il cardinale Francesco Maria Medici da Lappeggi nel 1708. Fu demolita durante i restauri della chiesa negli anni Venti del Novecento per lasciare in bella vista il campanile con monofore accecate e aperte e quattro campane. Dieci anni dopo, la merlatura fu sostituita con una copertura a tetto. 

Nella lunetta sul portale d’ingresso è inserita un’Annunciazione in terracotta dei fratelli Taccini, inaugurata nel 1993. Sulla facciata sono inseriti gli stemmi dei Peruzzi, dei Borgognoni, dei Dell’Antella, dei Ginori-Conti, dei Della Gherardesca e dei Bonaccorsi.

L’interno è ricco di opere lapidee come alcuni altari settecenteschi con stemmi gentilizi, il fonte battesimale del secolo XVII in marmo bianco, il pulpito a cinque facce in pietra serena del 1580 e il tabernacolo per l’olio santo del secolo XV in pietra grigia. Queste ultime due furono qui trasferite dalla attigua cappella della Compagnia.

Fra le molte opere pittoriche ricordiamo in particolare:

La Madonna dona l’abito ai Sette Santi Fondatori di Lorenzo Lippi è un olio su tela datato 1660. Fra i santi emerge San Manetto Dell’Antella con il libro in mano con lo stemma di famiglia. Opera importante perché in basso a destra sono rappresentati la chiesa, il campanile, la canonica e il tabernacolo al ponte dell’Antella com’erano all’epoca. 

Il pittore e poeta Lorenzo Lippi (1606-1664)

Forse non tutti sanno che quando Lorenzo Lippi (1606-1664) stava dipingendo il quadro veniva tutti i giorni da Grassina dove abitava nella villa Mezza Costa al Rosso in affitto dai monaci di Montescalari. In effetti era un gran camminatore e, proprio per questo suo volersi mantenere agile e in forma, «per l’indefesso camminare, che’ fece un giorno [15 aprile], com’era suo ordinario costume, anche nell’ore più calde, e sotto la più rigorosa sferza del Sole, parendogli una tal cosa bisognevole alla sua sannità», fu assalito da “pleuritide con veemente febbre” e morì a soli cinquantotto anni.    

Nel 1658 aveva fatto una pittura della Madonna nella chiesa di San Martino a Strada. Ma, oltre che pittore, era un poeta che recitava all’improvviso, noto per il suo carattere burlone, spiritoso e bizzarro che produsse il famoso poema eroicomico ricco di motti e proverbi fiorentini Il Malmantile racquistato al quale lavorò fino alla sua morte… e chissà quante parole e modi di dire avrà attinto dal popolo ripolese! 

S. Michele e angeli adoranti di Cecco Bravo del 1635. 

– La Madonna col Bambino, S. Francesco d’Assisi e S. Giovanni Battista di Paolo Schiavo è un affresco della metà del secolo XV che fino al 1967 si trovava in un tabernacolo nella vecchia cucina della canonica, per secoli usata da affittuari e per ultimi da Mauro Socchi e dalla zia Rina.

L’affresco di Paolo Schiavo

Inoltre, si segnalano:

– La Madonna col Bambino, una terracotta smaltata policroma del 1510 circa attribuita a Benedetto Buglioni, con una storia travagliata. Si trovava nell’oratorio di villa Monna Giovannella che nel 1877 fu acquistato da Ernesto Nathan il quale, essendo di religione ebraica, lo chiuse al culto e lo trasformò in un atelier di pittura. 

La terracotta invetriata di Benedetto Buglioni

Quindi, si disfece di tutte le opere di religione cattolica che si trovavano al suo interno donandole alla Misericordia dell’Antella, fra le quali la tela Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova del secolo XVII e la terracotta che fu montata nella cappella di san Luigi nel cimitero ed esposta al pubblico soltanto per le solennità del camposanto. Nonostante la protezione di un cancello in ferro, fu rubata nella notte fra il 28 e il 29 novembre 1905. Cinque anni dopo fu ritrovata e consegnata al pievano il cui predecessore l’aveva richiesta più volte fin dal 1890. Finalmente, dopo varie vicende legali, nel 1912 fu montata in una nicchia in chiesa dove si vede tuttora.

– Il primo altare a destra, entrando in chiesa, è dedicato a san Girolamo e fu fondato nel 1653 dalla famiglia Balatri che lo dotò di cospicue rendite. Al posto della originale tela del XIII secolo rappresentante il santo (scomparsa) si trova una Crocifissione di Simone Pignoni. 

Sotto l’altare, si trova una teca con lo scheletro di un misterioso martire Lutius vestito con paramenti lussuosi. Tiene in una mano una palma verde, simbolo cristiano del martirio, e nell’altra un’ampollina che potrebbe contenere sangue. L’urna si trovava nella chiesa di San Michele a Tegolaia a Grassina quando, a metà degli anni Novanta, fu data in deposito al pievano dell’Antella che la mise sopra un armadio nella sacrestia dove è rimasta fino al 2016 quando è stata esposta sotto l’altare dei Balatri. 

– Un altro oggetto misterioso si trova in alto a sinistra dell’arco trionfale a bozze di marmo verde e bianco. È un bassorilievo con un serpente scolpito nel marmo che, fino al 1939, si trovava ancora murato sulla facciata della chiesa. 

La leggenda racconta che, anticamente, su una collina presso il borro dell’Antella, una grande frana aprì un profondo baratro dal quale uscirono dei serpenti mostruosi di dimensioni e forme orribili, per conservarne la memoria dei quali fu messo sulla chiesa il marmo con il serpente, che fu subito identificato come un drago. 

Il bassorilievo del leggendario drago

Pare che il 15 maggio 1335 un tremendo terremoto sconvolgesse, effettivamente, quel monte gettando fuori una gran quantità di serpi e due serpenti con quattro gambe grosse come quelle dei cani, l’uno vivo l’altro morto, i quali furono presi e portati a Firenze. Si dice che quello vivo fosse stato ucciso con un colpo d’archibugio dall’alto del campanile.

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IL BIGALLO a Bagno a Ripoli

Lo stemma della Compagnia del Bigallo con un gallo e la sigla S M B (Santa Maria del Bigallo)

by Andrea Misuri

All’inizio del XIII secolo un ricco fiorentino, Dioticidiede di Bonaguida dei Lamberti del Dado, fondò uno Spedale sulla vecchia via dei pellegrini che attraverso il valico di San Donato collegava Fiorenza ad Arezzo e Roma.

 

 

Il Bigallo avvolto dalla nebbia del primo mattino
Il Cral del Comune di Firenze visita il Bigallo

Il nome, con ogni probabilità, si deve al toponimo “bivius Galli”, per quella biforcazione che si apre ancora oggi di fronte alla struttura e che doveva raggiungere le proprietà della famiglia Galli. Nel febbraio 1502 lo spedale diventò monastero di clausura per le monache di Casignano. Arriviamo al 1529 e alla conquista di Firenze da parte dell’esercito spagnolo di Carlo V. Quando le truppe dei Lanzichenecchi furono sulla sommità del colle, nella vallata sottostante la città apparve in tutta la sua bellezza. Da qui il nome l’Apparita a ricordare l’evento.

Dalla cima del colle ai Lanzichenecchi apparve Firenze
L’orto medioevale nella parte posteriore del Bigallo

Così come la fonte che al tempo sgorgava proprio lì e dove i Lanzichenecchi si fermarono per  lavarsi…. Da allora la fonte, oggi praticamente scomparsa, fu chiamata del Pidocchio. Con le leggi napoleoniche il monastero fu soppresso nel 1808 e acquistato in seguito dalla famiglia Zampini.

Con il Novecento il passaggio di proprietà al Comune di Bagno a Ripoli. Nel dopoguerra divenne abitazione per gli sfollati ed ancora nei primi anni Cinquanta all’entrata c’era una bottega di alimentari. Il complesso torna a nuova vita e all’antico splendore con la ristrutturazione per il Giubileo del 2000.

Il camino
Angolo della cucina monumentale
Sul muro della cucina

 

Negli ultimi anni è location di meetings e matrimoni, oltre che ostello (termine decisamente riduttivo) per i pellegrini del nuovo millennio. Le camerate si caratterizzano per un arredamento all’apparenza spartano che ripropone l’ambiente originale creando un’atmosfera d’altri tempi.

Un angolo della camerata
Si dorme in un letto ricostruito come quelli del tempo
Antico-lavandino-in-camera

Poi è arrivato il tempo della Pandemia e tutto si è fermato. Anche il Bigallo, al pari dell’intero Paese, è un po’ come la Bella Addormentata in attesa del bacio del Principe Azzurro. Il risveglio tarda ad arrivare ma il tempo della ripartenza è ormai alle porte. Potrebbe essere un’idea se, uscendo dalla resilienza dalla Pandemia, nascesse una rappresentazione teatrale per ripercorrere i suoi 800 anni di vita. Con persone in costume e strumenti a ritmare i suoni ed i colori della natura circostante. E i profumi di antichi sapori che escono dal camino dell’immutata cucina monumentale. 

 

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Oggi, di 21 anni fa, GINO BARTALI ci lasciava

Gino Bartali, foto dal web

🖤Questa mattina di Mercoledì 5 maggio 2021, alle ore 10:00, alla chiesa di Ponte a Ema la comunità ricorda Gino Bartali nell’anniversario del 21° anno dalla sua scomparsa.

Alla CURVA DEI BRIGANTI in via Roma a Bagno a Ripoli: delinquenti per fame e miseria

La Curva dei Briganti verso San Donato in Collina

by Massimo Casprini

La Curva dei Briganti: la fame e la miseria spingevano a delinquere 

Al chilometro 8,750 della via Roma verso San Donato in Collina (anticamente: Strada Postale Regia Aretina) c’è una curva molto stretta che, più di altre, induce a rallentare. È la cosiddetta Curva dei Briganti che pochi conoscono ma che ha avuto la sua storia.  

Sicuramente, i briganti di Bagno a Ripoli non avevano niente a che fare con quelli più famosi e leggendari della Maremma dove, soltanto a pronunciare i loro nomi, la gente e i signorotti di campagna tremavano di paura: Gnicche (Federigo Bobini), Stoppa, Tiburzi, Magrini e tanti altri, per non dimenticare Stefano Pelloni detto Il Passatore che imperversava dalla Romagna alla Toscana.

Non tutti i “nostri” sono stati identificati e neppure sono rimasti i loro soprannomi nella memoria popolare perché, evidentemente, non avevano taglieggiato con violenza e neppure ucciso nessuno, tanto da essere registrati nei rapporti dei carabinieri. Le loro gesta non hanno ispirato i cantastorie per comporre le ballate in ottava rima che venivano cantate nei mercati ma, forse, qualche racconto è stato tramandato per alcune generazioni durante le veglie sul canto del fuoco. Poi, con il tempo e con i cambiamenti della vita sociale, si è perso per sempre. 

 Probabilmente, si trattava di una piccola banda di pochi elementi che, comunque, disturbava il transito normale di viaggiatori, carrettieri, viandanti, pellegrini, mercanti.

I briganti assaltano la diligenza (disegno di Carlo Chiostri, fine Ottocento)

Il luogo – quella curva su una strada storica e di grande comunicazione dove, sembra, ci fosse stata una piccola fornace – era l’ideale per fare imboscate e agguati. Ancora per tutto l’Ottocento i postiglioni, i cocchieri, i vetturali e i conduttori di carrozze evitavano di passarci di notte ma il rischio c’era comunque anche di giorno.

Era diffuso il detto popolare: ” Nè di giorno nè di sera/  Non passar per selva nera./ Se per caso tu ci passi,/ Stringi il culo e affretta i passi”. 

I briganti, il cui rifugio era nei folti boschi soprastanti di Montepilli che offrivano una sicura via di scampo, scendevano a piedi lungo quel sentiero che sbocca proprio nel centro della curva dove le carrozze, le diligenze e la corriera postale erano costrette a rallentare, quasi a fermarsi. Qui, usciti dall’appostamento dietro gli alberi, affrontavano i viaggiatori con ordini secchi, gesti rapidi, poche parole e con il coraggio dato dalle armi che imbracciavano ma che era solo apparente in quanto dettato soprattutto dalla disperazione.

 È chiaro che, di fronte ai fucili spianati, i malcapitati preferivano pagare sotto la minaccia: “O la borsa o la vita!” per continuare il viaggio, illesi e tremanti, verso il valico che, per secoli, si è chiamato San Donato a Busilli, proprio perché busillis è il termine latino usato per indicare un punto difficile da superare per le ripide salite e per i pericoli che si potevano incontrare, non esclusi banditi, briganti e assassini.

Si ha notizia, infatti, che molti pellegrini che affrontavano il viaggio da Firenze a Roma, erano soliti fermarsi allo Spedale del Bigallo – poco prima della Curva dei Briganti – dove lasciavano in deposito gran parte dei loro averi e, alcuni, facevano anche un testamento a favore dello Spedale, nel caso che non avessero fatto ritorno. 

In cima al passo, i viaggiatori si potevano rifocillare per lo scampato pericolo in una Cànova (della quale esiste ancora oggi un’insegna), far ferrare i cavalli nella bottega del fabbro (già indicata nelle carte dei Capitani di Parte del Quattrocento) oppure fermarsi a dormire e cambiare i cavalli nel posto di tappa con osteria, locanda e stalle (oggi occupato da esercizi commerciali).

Da qui, sono transitati eserciti invasori diretti a Firenze, da quello degli aretini nel 1289 a quello dei francesi del 1799. Il percorso ricalcava l’antichissima via di collegamento con la Cassia Vetus romana e fu soltanto nel 1763 che Pietro Leopoldo operò delle modifiche in alcuni tratti per renderla più agevole al transito di persone e merci eliminando alcune salite da Bagno a Ripoli a San Donato che necessitavano del trapelo con i buoi.

La Curva dei Briganti rimase nella sua caratteristica a disposizione dei masnadieri che, soltanto a vederli, incutevano paura: baffi e barba lunghi, il volto coperto da una grande pezzola, un cappellaccio di feltro calcato in testa, giubba e pantaloni di fustagno, stivali e cosciali di cuoio, cartucciere a tracolla, un pugnale nella cintura e un fucile in mano.

Non si ricordano particolari fatti di sangue perché gli aggressori non erano persone avvezze alla violenza e all’omicidio ma contadini, braccianti o boscaioli della zona mascherati da banditi che agivano più che altro mossi dalla miseria e dalla fame e che, a volte, si spacciavano per briganti famosi.

Quelli che imperversavano fra Ottocento e Novecento nelle zone di Grassina, Ponte a Ema, San Donato e Castelruggero erano più che altro ladri, furfanti e delinquenti comuni che si contentavano di scarsi bottini in denaro, polli, galline, canestri d’uva, serque d’uova, fiaschi di vino, forme di pecorino e anche vestiti e scarpe. Comunque, anche questi si presentavano alle loro vittime mascherati e armati di pistole e fucili incutendo terrore.

Una “banda brigantesca” composta da sette o otto elementi era capitanata da Arturo Alinari, detto Il Padreterno, di Grassina che aveva la sua base d’appoggio nella casa del fratello Ruggero a Ponte a Ema. Ne facevano parte tutti uomini del luogo: Alberto Baldi, fornaciaio; il Bongini, lavandaio; il Bruschi, imbianchino; lo Spagnoli, detto Pancino; Giuseppe Mugnai; Alessio Baldanzi; il Cioli. 

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