Alla CURVA DEI BRIGANTI in via Roma a Bagno a Ripoli: delinquenti per fame e miseria

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by Massimo Casprini

La Curva dei Briganti: la fame e la miseria spingevano a delinquere 

Al chilometro 8,750 della via Roma verso San Donato in Collina (anticamente: Strada Postale Regia Aretina) c’è una curva molto stretta che, più di altre, induce a rallentare. È la cosiddetta Curva dei Briganti che pochi conoscono ma che ha avuto la sua storia.  

Sicuramente, i briganti di Bagno a Ripoli non avevano niente a che fare con quelli più famosi e leggendari della Maremma dove, soltanto a pronunciare i loro nomi, la gente e i signorotti di campagna tremavano di paura: Gnicche (Federigo Bobini), Stoppa, Tiburzi, Magrini e tanti altri, per non dimenticare Stefano Pelloni detto Il Passatore che imperversava dalla Romagna alla Toscana.

Non tutti i “nostri” sono stati identificati e neppure sono rimasti i loro soprannomi nella memoria popolare perché, evidentemente, non avevano taglieggiato con violenza e neppure ucciso nessuno, tanto da essere registrati nei rapporti dei carabinieri. Le loro gesta non hanno ispirato i cantastorie per comporre le ballate in ottava rima che venivano cantate nei mercati ma, forse, qualche racconto è stato tramandato per alcune generazioni durante le veglie sul canto del fuoco. Poi, con il tempo e con i cambiamenti della vita sociale, si è perso per sempre. 

 Probabilmente, si trattava di una piccola banda di pochi elementi che, comunque, disturbava il transito normale di viaggiatori, carrettieri, viandanti, pellegrini, mercanti.

I briganti assaltano la diligenza (disegno di Carlo Chiostri, fine Ottocento)

Il luogo – quella curva su una strada storica e di grande comunicazione dove, sembra, ci fosse stata una piccola fornace – era l’ideale per fare imboscate e agguati. Ancora per tutto l’Ottocento i postiglioni, i cocchieri, i vetturali e i conduttori di carrozze evitavano di passarci di notte ma il rischio c’era comunque anche di giorno.

Era diffuso il detto popolare: ” Nè di giorno nè di sera/  Non passar per selva nera./ Se per caso tu ci passi,/ Stringi il culo e affretta i passi”. 

I briganti, il cui rifugio era nei folti boschi soprastanti di Montepilli che offrivano una sicura via di scampo, scendevano a piedi lungo quel sentiero che sbocca proprio nel centro della curva dove le carrozze, le diligenze e la corriera postale erano costrette a rallentare, quasi a fermarsi. Qui, usciti dall’appostamento dietro gli alberi, affrontavano i viaggiatori con ordini secchi, gesti rapidi, poche parole e con il coraggio dato dalle armi che imbracciavano ma che era solo apparente in quanto dettato soprattutto dalla disperazione.

 È chiaro che, di fronte ai fucili spianati, i malcapitati preferivano pagare sotto la minaccia: “O la borsa o la vita!” per continuare il viaggio, illesi e tremanti, verso il valico che, per secoli, si è chiamato San Donato a Busilli, proprio perché busillis è il termine latino usato per indicare un punto difficile da superare per le ripide salite e per i pericoli che si potevano incontrare, non esclusi banditi, briganti e assassini.

Si ha notizia, infatti, che molti pellegrini che affrontavano il viaggio da Firenze a Roma, erano soliti fermarsi allo Spedale del Bigallo – poco prima della Curva dei Briganti – dove lasciavano in deposito gran parte dei loro averi e, alcuni, facevano anche un testamento a favore dello Spedale, nel caso che non avessero fatto ritorno. 

In cima al passo, i viaggiatori si potevano rifocillare per lo scampato pericolo in una Cànova (della quale esiste ancora oggi un’insegna), far ferrare i cavalli nella bottega del fabbro (già indicata nelle carte dei Capitani di Parte del Quattrocento) oppure fermarsi a dormire e cambiare i cavalli nel posto di tappa con osteria, locanda e stalle (oggi occupato da esercizi commerciali).

Da qui, sono transitati eserciti invasori diretti a Firenze, da quello degli aretini nel 1289 a quello dei francesi del 1799. Il percorso ricalcava l’antichissima via di collegamento con la Cassia Vetus romana e fu soltanto nel 1763 che Pietro Leopoldo operò delle modifiche in alcuni tratti per renderla più agevole al transito di persone e merci eliminando alcune salite da Bagno a Ripoli a San Donato che necessitavano del trapelo con i buoi.

La Curva dei Briganti rimase nella sua caratteristica a disposizione dei masnadieri che, soltanto a vederli, incutevano paura: baffi e barba lunghi, il volto coperto da una grande pezzola, un cappellaccio di feltro calcato in testa, giubba e pantaloni di fustagno, stivali e cosciali di cuoio, cartucciere a tracolla, un pugnale nella cintura e un fucile in mano.

Non si ricordano particolari fatti di sangue perché gli aggressori non erano persone avvezze alla violenza e all’omicidio ma contadini, braccianti o boscaioli della zona mascherati da banditi che agivano più che altro mossi dalla miseria e dalla fame e che, a volte, si spacciavano per briganti famosi.

Quelli che imperversavano fra Ottocento e Novecento nelle zone di Grassina, Ponte a Ema, San Donato e Castelruggero erano più che altro ladri, furfanti e delinquenti comuni che si contentavano di scarsi bottini in denaro, polli, galline, canestri d’uva, serque d’uova, fiaschi di vino, forme di pecorino e anche vestiti e scarpe. Comunque, anche questi si presentavano alle loro vittime mascherati e armati di pistole e fucili incutendo terrore.

Una “banda brigantesca” composta da sette o otto elementi era capitanata da Arturo Alinari, detto Il Padreterno, di Grassina che aveva la sua base d’appoggio nella casa del fratello Ruggero a Ponte a Ema. Ne facevano parte tutti uomini del luogo: Alberto Baldi, fornaciaio; il Bongini, lavandaio; il Bruschi, imbianchino; lo Spagnoli, detto Pancino; Giuseppe Mugnai; Alessio Baldanzi; il Cioli. 

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