Il Palazzaccio: da oltre 8 secoli a guardia della via di transumanza

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Lungo la via Maremmana che attraversa il territorio di Bagno a Ripoli, sulla pendice boschiva di Poggio Firenze, si trovano i suggestivi resti di un importante castello. È il cosiddetto Palazzaccio, detto anche il Palazzo dei Diavoli: un rudere maestoso e pittoresco con eleganti bifore sulle mura coperte d’edera e una torre massiccia rafforzata da possenti scarpate. Si trattava di un castello difensivo costruito nel XIII secolo dai Da Gavignano a guardia dell’antichissima via di transumanza. Nel 1434 fu acquistato dalla potente famiglia fiorentina dei Benci e nel 1550 passò ai Capponi fino a tutto l’Ottocento.

Oltre alla funzione militare che ha detenuto per secoli, ha avuto anche uno scopo economico controllando il transito di merci, animali e persone sull’importante strada Maremmana che gli passa vicino.

Come ogni castello che si rispetti, anche questo ha i suoi miti e le sue leggende. Si vuole che un misterioso passaggio sotterraneo lo collegasse con i vicini castelli di Tizzano e Musignano per formare una triade difensiva dell’intero territorio. Considerato il suo aspetto infernale, si è fantasticato credendo che lì si riunissero diavoli e streghe per i loro riti e, naturalmente, non poteva mancare la mitica “gallina dalle uova d’oro” sepolta nel suo interno.

Nel corso della sua lunga storia, il castello, ha suscitato l’interesse di sedicenti cercatori di tesori e di studiosi, poeti e archeologi che sono rimasti affascinati da questa costruzione immersa nel bosco intorno alla quale è sempre aleggiato il mistero della sua origine e del suo decadimento.

Ricordiamo i “Pastori Antellesi” e lo scienziato Lorenzo Magalotti che lo visitarono nel Seicento. Nell’Ottocento, fece i suoi studi Luigi Torrigiani secondo il quale il castello fu parzialmente distrutto non da una frana del terreno ma dalle sommosse popolari contro «i feudatari che taglieggiavano i viandanti a guisa di ladroni alla strada e angariavano in ogni maniera i poveri contadini». Nel 1896, Guido Carocci concluse la sua relazione con queste parole: «È un rudere che va rapidamente perdendosi per mancanza di ogni riparazione ed è deplorabile che si perda così un insieme oltremodo pittorico con alcune parti architettoniche interessanti».

Massimo Casprini

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La redazione del giornale eChianti.it